Green and Grey. Archeologia industriale in Italia – La Voce di New York

2022-08-20 13:02:24 By : Mr. Thomas Debby

President: Giampaolo Pioli    |    Editor in Chief: Stefano Vaccara English Editor: Grace Russo Bullaro 

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La High Line di New York, reinterpretazione di una infrastruttura ferroviaria cittadina destinata alla demolizione, è un esempio edificante di intersezione tra verde e cemento, tra natura e urbe. In questo progetto meravigliosamente riuscito, inaugurato nel 2011 lungo il confine occidentale di Manhattan, c’è collaborazione, rispetto, razionalità, ingegno.

In Italia, potenzialmente, ne avremmo di parchi pensili moderni, pensando a quanti viadotti – solo per citare un’espressione – che terminano nel nulla, se non a ridosso di case! E si parla di Italia incompiuta.

National Geographic ha pubblicato un servizio nel 2013, documentando una serie vergognosa (pensando allo scempio paesaggistico e allo spreco di denaro pubblico) di “sospesi”, dal “mostro” di Casalecchio sul Reno, 1955, che avrebbe dovuto essere un seminario con annessa scuola di formazione, al viadotto – per tornare a quanto sopra – di San Giacomo dei Capri, nel quartiere Arenella a Napoli, 1985, interrotto per difficoltà negli espropri dopo una spesa di 800 milioni di Lire. Due anni fa il sindaco della città partenopea, Luigi De Magistris, ha accolto la proposta dello scrittore Jacopo Fo di trasformare la bretella interrotta in giardino pensile, su ispirazione proprio della High Line di New York. La possibilità d’intervento è stata inserita nell’ordine del giorno della seduta comunale datata 8 aprile 2014. Poi?

A miglior esito un paio di interventi realizzati a Verona: la riconversione del macello in sito residenziale e commerciale e la riqualificazione dell’area dei magazzini generali e stazione frigorifera.

L’edificazione di un pubblico macello per la città si rese necessaria verso la metà del Settecento, per l’aumento della popolazione e la crescita urbana, conseguentemente per esigenze igieniche e logistiche. Dopo circa un secolo, la prima sede, creata nel 1768, fu trasferita, per ingrandirlo (e per non ammorbare più l’aria del quartiere) nel sito odierno, centrale, accanto al fiume Adige e poco lontano dall’Arena, zona ideale perché allora lontano dalle abitazioni, aperta alla ventilazione e facilmente approvvigionabile d’acqua corrente. Il complesso esisteva già da secoli, deposito per le merci che arrivavano via fiume. Nel 1803 l’amministrazione militare del Lombardo-Veneto ne fece sede di una caserma, poi nel 1853 il Comune di Verona acquistò l’intero complesso edilizio per destinarlo ad uso macello.

Il progetto dell’ingegnere comunale Enrico Storari mirò a un recupero conservativo, realizzando una nuova facciata neoclassica, caratterizzata dal tema delle teste bovine, e organizzando i locali con razionalità e nel quadro delle norme igieniche (muri rivestiti di marmo per gran parte della loro altezza; pavimenti in marmo, da ricoprire di calce e sabbia e leggermente inclinati, per agevolare la pulizia; interstizi murati per impedire l’annidamento dello sporco). Gli animali erano divisi (bovini, ovini, suini, cavalli, conigli), con annesso, specifico mattatoio, così come divisi erano gli spazi per la lavorazione del pollame e degli scarti. Ristrutturazione, collaudi, verifiche: il macello divenne ufficialmente operativo nell’ottobre del 1860, poi si aggiunse un palazzetto adiacente, per ospitare il veterinario provinciale e dal 1866 nel sito trovò luogo anche la “tripperia”. Il macello chiuse i battenti nel 1966 fino a che negli anni Ottanta, dopo un restauro del Comune, venne convertito a uso civile e commerciale.

Sempre a Verona, nell’area oggi nota come ZAI, nei pressi del casello VR Sud e della Fiera, sorgeva, dal 1848, l’asburgico Forte Clam o Porta Nuova. Vincoli e servitù militari vennero progressivamente a cadere dopo il 1896 e il Forte continuò ad essere usato come magazzino fino al 1913, quando venne distrutto e cominciarono le trattative tra l’autorità militare e il Comune per l’acquisizione del suolo. L’area dei magazzini generali fu edificata a partire dal 1924 per favorire il commercio ortofrutticolo e un vero e proprio import/export con Germania, Inghilterra, Francia, Svizzera, Paesi Bassi e penisola scandinava. Il primo progetto fu firmato dall’ingegnere capo del Comune, Adolfo Zordan, su esempio dei Magazzini di Genova e Milano e sul primo gruppo di fabbricati, con relativi collegamenti ferroviari alla stazione di Porta Nuova. Il sipario si alza nel settembre 1927.

La stazione frigorifera venne invece ideata dall’ingegnere veronese Pio Beccherle nel 1928 e inaugurata nel 1930: con i suoi oltre 10.000 mq di celle refrigerate e una cupola dal diametro di 100 metri era, all’epoca, la più grande in Europa, nonché quella tecnologicamente più avanzata nel campo della produzione del freddo industriale, affiancandosi a quella di Monaco di Baviera sulla direttrice del Brennero. Pianta centrale, imperniata su una piattaforma girevole per la movimentazione interna dei carri ferroviari: un’architettura dalle soluzioni formali perfettamente rispondenti alle complesse esigenze logistiche funzionali, senza dimenticare – come nell’illuminata concezione del tempo – l’esito estetico. L’effetto imponente e monumentale parte dalla scelta del volume unitario, esplicandosi poi nell’impianto simmetrico radiale, nella grande cupola finestrata, nella lanterna, nel massiccio bugnato del portale principale.

Il declino dell’area si delineò verso la fine degli Anni Sessanta, a causa della concorrenza di nascenti strutture private e con l’avanzare del trasporto su gomma (nel ’50 apre l’autostrada Serenissima, nel ’53 la Brennero-Modena). La dismissione definitiva si data 1982, ma, dopo lunghi anni di abbandono e incuria, questo mirabile esempio di archeologia industriale ha riacquistato dignità grazie a un articolato piano di riqualificazione. Il restyling più in vista riguarda la stazione frigorifera, firmato Mario Botta (Mart di Rovereto): qui aprirà a breve uno store della catena Eataly e, attorno alla macchina per la produzione del ghiaccio, un museo sulla conservazione del cibo. In adiacenti padiglioni altre sedi di servizi e uffici, è già insediato l’Ordine ingegneri di Verona e provincia, accanto all’Archivio di Stato; prossimi vicini di casa anche altri ordini professionali (arrivati da poco gli architetti), ad agglomerare una sorta di cittadella dei tecnici.

Luca Scappini, presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Verona e Provincia, racconta: “Se ne parlava da quasi dieci anni e oggi viviamo quella sfida, avvincente e sofferta al contempo. Il trasferimento della sede dell’Ordine negli spazi recuperati degli ex Magazzini Generali – ufficializzato con l’inaugurazione del 4 ottobre 2014 – è stato un tema a lungo discusso. La decisione di lasciare un edificio prestigioso della metà del ‘500 come Palazzo Pindemonti nel cuore storico della magnifica Verona, ha procrastinato questa svolta, ma l’evoluzione del ruolo dell’Ordine, con l’obbligatorietà di offrire formazione ai nostri quasi 3.000 iscritti, ha dato la spinta decisiva a cercare una nuova soluzione e la concomitanza con il recupero dell’intera area da parte di Fondazione Cariverona ci ha permesso di usufruire di spazi adeguati alle nuove esigenze, a norma sotto il profilo della sicurezza e dell’accessibilità. La posizione logisticamente strategica al raccordo autostradale, ma anche al centro città risulta più facilmente raggiungibile per gli iscritti del territorio e per gli ospiti da fuori città, per i quali è disponibile uno spazio co-working. Abbiamo concretizzato un progetto di ampio respiro e ci sentiamo un poco ‘pionieri e protagonisti’, guardando, con altri enti e realtà professionali, al rinnovamento del ruolo istituzionale e sociale dell’Ordine e ad un suo contributo culturale verso la città”.

Il rilievo 3D dell’ex Stazione Frigorifera Specializzata (Magazzini Generali di Verona) è stato realizzato dal Laboratorio di Rilevamento e Geomatica – Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale – Università degli Studi di Padova, mediante metodologia laser scanning terrestre.

Chi si è dato da fare, tanto e gratis, a Peschiera del Garda (VR) è un’associazione di volontari che ha letteralmente tolto la polvere alla polveriera austriaca. Peschiera, città turistica e d’arte, affonda le sue radici nel lago di Garda, come villaggio palafitticolo. La descrive in epoca romana Plinio il Vecchio, sottolineando l’abbondanza del pescato, e la canta Dante nell’Inferno:

“Siede Peschiera bello e forte arnese / da fronteggiar bresciani e bergamaschi / ove la riva intorno più discese. / Ivi convien che tutto caschi / ciò che ‘n grembo a Benaco star non può / e fassi fiume giù per verdi paschi. / Tosto che l’acqua corre a metter co’/ non più Benaco, ma Mencio si chiama / fino a Governol dove cade in Po”.

Nel Cinquecento la Repubblica Veneta ne fa una fortezza bastionata, col trattato di Campoformido (1797), cade nelle mani degli Austriaci e diventa uno dei capisaldi del Quadrilatero con Mantova, Legnago e Verona. Dopo l’annessione all’Italia dopo la guerra del 1866, cominciano lentamente le demolizioni delle opere e delle mura, per dare respiro all’abitato. La polveriera è giunta a noi intatta, ma nel totale degrado fino a pochi anni fa. Il Sub Club Peschiera ha lì traslocato, prendendosi carico della ristrutturazione: lavori edili basilari a cura di imprese esterne, poi il resto sulle spalle e nelle mani di un manipolo di volontari che, con un lavoro veramente indefesso, ha risvelato il valore strutturale e conseguentemente sociale dell’edificio, che adesso è parte integrante del museo all’aperto delle mura.

Sergio Perinelli, tra i volenterosi che hanno prestato tempo e braccia, racconta la storia più recente: “Ore di lavoro spese nella ‘resurrezione’ del posto? Non quantificabili: si parla di in termini di mesi. Il contributo economico dell’amministrazione comunale è misurabile, ma fuori dai calcoli rimane quello umano, l’opera di volontariato, che è stata attendibilmente valutata in oltre 130.000 euro”. Difficoltà? “Un mucchio – dice – ma le abbiamo tutte superate con pazienza e impegno”. I lavori all’oggi sono praticamente completati. “Le destinazioni d’uso – precisa Perinelli – saranno molteplici, aperte quanto possibile alle esigenze dei richiedenti: meeting di lavoro, conferenze, incontri culturali, esposizioni, compleanni e ricorrenze varie. La location è davvero unica, si può concordare anche la possibilità di aperitivi o menu completi: la nostra organizzazione è elastica ed efficiente, un vero, piccolo esercito!”.

La ventosa Trieste ha un Porto vecchio incredibilmente tralasciato, rispetto alla mancanza di spazi di una città stretta fra mare e monte. Dopo decenni di parole, finalmente si passerà ai fatti dopo l’esame, da parte del Governo italiano, di un doppio dossier tecnico (e relativa richiesta di fondi) presentato dal Comune della città a febbraio e contenente indicazioni per fornire l’area (100.000 mq.) di infrastrutture e per realizzare un Museo del Mare. Anche qui, come per il viadotto napoletano, si attendono sviluppi concreti, dopo le assicurazioni ribadite dal sindaco in occasione del recente TriestEspresso Expo (ottobre 2016): “L’area straordinaria è stata sdemanializzata – ha annunciato il Sindaco Roberto Dipiazza – e presto diventerà parte del Comune; è stato firmato un Protocollo d’Intesa tra Presidenza del Consiglio dei Ministri, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Comune di Trieste e Autorità Portuale di Trieste per la valorizzazione del sito (maggio 2016 NdA) e ora i lavori procedono”.

A Collegno, in provincia di Torino, si ammira il Villaggio Operaio Leumann, creato tra il 1876 e il 1912 dall’imprenditore svizzero Napoleone Leumann per ospitare gratuitamente le proprie maestranze provenienti sia dalla precedente tessitura di Voghera (Oltrepò pavese) sia dai comuni limitrofi a Collegno. Su 72.000 mq. si estendono due complessi abitativi – separati da una via principale che si conclude in una piccola piazza – e una serie di edifici di lavoro e servizio, oltre alla chiesa di S. Elisabetta. L’insediamento, concepito molto modernamente per essere del tutto autonomo ed accogliente, presenta villette in laterizio con due piani e orto-giardino, il convitto per le operaie, il refettorio, l’edificio dei bagni, il teatro, l’albergo Il Persico, la stazioncina, l’ufficio postale, la scuola materna e quella elementare, la palestra, l’ambulatorio medico, il circolo per gli impiegati e lo spaccio alimentare. Il cotonificio è stato chiuso definitivamente nel 2007. Il Comune di Collegno si è adoperato per acquistare il Villaggio, che oggi è sotto la tutela della Soprintendenza dei Beni architettonici e paesaggistici del Piemonte e fa parte della rete ecomuseale della provincia di Torino. La scuola ospita cinque classi di scuola elementare ed è sede dell’Ecomuseo, le abitazioni sono ancora utilizzate come tali e gli edifici di servizio hanno tuttora una funzione pubblica.

L’Associazione Amici della Scuola Leumann tutela la conservazione del sito e organizza visite e attività culturali. La memoria della tessitura, ad esempio, è mantenuta viva tramite i laboratori inaugurati nel 2007. La manifestazione più significativa, che porta al Villaggio artigiani e artisti del tessile da tutta Italia e da Paesi europei ed extraeuropei è Filo lungo filo, un nodo si farà, che si svolge il quarto week end di settembre all’interno del cortile dell’ex-cotonificio, articolata in un convegno, la rassegna dell’artigianato tessile e svariate mostre, dislocate negli edifici storici.

A metà tra situazioni di trascuratezza e rivalorizzazione, i contenuti dell’originale database di Roberto Rovelli: una galleria regionale, da Nord a Sud, di binari morti in attesa di resurrezione. Il sito è collegato all’iniziativa dell’Associazione Italiana Greenways, per portare in primo piano le greenways realizzate lungo i tracciati ferroviari abbandonati con caratteristiche tecniche e ambientali di qualità, atte ad un utilizzo turistico. Nella penisola sono circa 7.500 i km ferroviari non in esercizio, tra cui il tratto Susa-San Michel de Maurienne, aperto nel lontano 1868 e chiuso nel 1871, nato come linea provvisoria fra Italia e Francia, in attesa del completamento del traforo ferroviario del Frejus. Il percorso in territorio italiano si estende attualmente per circa 18 km, ma ai tempi era più lungo, poiché il confine internazionale allora toccava il colle del Moncenisio. Ingegneri con la passione per l’archeologia possono oggi individuare pochi, ma rintracciabili, resti di strutture murarie, gallerie e terrapieni, lungo la S.S. 25 del Moncenisio.

Un esempio a Est? Da Trieste a Parenzo (Croazia) si allungavano 123 km. di binari (una dozzina in terra italiana), dismessi nel 1935, ma ancora visibili per la quasi intera estensione e convertiti, in territorio sloveno e croato, in pista ciclopedonale.

Una curata vetrina su monumenti del lavoro si apre sull’associazione Archeologiaindustriale.net: “Archeologiaindustriale.net – ha detto Simona Politini, presidente, fondatrice e project manager dell’Associazione – è un progetto che nasce con l’obiettivo di far conoscere al di fuori degli addetti ai lavori lo splendido e interessantissimo patrimonio industriale del nostro paese. Attraverso i nuovi canali di comunicazione digital, che potremmo ormai definire ‘di massa’, e utilizzando un linguaggio semplice e chiaro, nonché puntando sull’emozione suscitata dai contenuti visivi, Archeologiaindustriale.net collabora concretamente alla diffusione della storia dell’impresa italiana, affinché se ne conservi memoria e che questa possa fungere da ispirazione alle generazioni presenti e future. L’Italia – ha continuato – grazie al suo fiorente passato industriale, possiede un numero considerevole di monumenti del lavoro legati alle diverse tipicità produttive del territorio e la maggior parte di questi beni attende ancora una riqualificazione, tuttavia esiste già un interessante numero di case history di riconversioni, è il caso degli ex siti industriali trasformati in luoghi per la cultura. Solo nel 2015 a Milano hanno visto la luce ben tre poli culturali all’interno di spazi un tempo dediti alla produzione industriale: stiamo parlando del MUDEC – Il Museo delle Culture sorto per volontà del Comune di Milano all’interno della ex Ansaldo di via Tortona, della nuova sede della Fondazione Prada all’interno della ex distilleria Società Italiana Spiriti e dell’Armani Silos, il museo che Giorgio Armani, icona mondiale del made in Italy, ha voluto realizzare all’interno di un ex silos della Nestlè. Ma non finisce qui. Viaggiando lungo la nostra bella Italia troviamo altri esempi mirabili, come l’affascinante Museo della Centrale Montemartini di Roma, dove sublimi sculture marmoree sono collocate a fianco dei vecchi macchinari produttivi. Qui l’archeologia industriale incontra l’archeologia classica. O ancora la Cittadellarte che Michelangelo Pistoletto ha voluto realizzare all’interno dell’ex lanificio Trombetta di Biella, conosciuta un tempo come la ‘Manchester d’Italia’ per la sua fiorente produzione tessile. Di questi e altri luoghi si parla all’interno del numero speciale della rivista culturale storica Il Calendario del Popolo, da me curato, dal titolo Archeologia Industriale – Luoghi per l’arte e la cultura”. Una sezione del sito riguarda anche il patrimonio estero, spaziando dal setificio di Tomioka, in Giappone, alla libreria Colibrì di Londra, alla Cable Factory di Helsinki, in Finlandia.

Simona Politini, lo scorso 7 ottobre, ha coordinato un convegno sul patrimonio industriale al Parlamento di Roma, prendendo spunto dall’indagine conoscitiva sul patrimonio culturale in stato di abbandono promossa dalla Senatrice Michela Montevecchi all’interno della Commissione Cultura al Senato, indagine propedeutica alla creazione di una Mappa dell’abbandono. Il progetto Archeologiaindustriale.net quest’anno ha ricevuto la Menzione Speciale al Premio dell’Unione europea per il Patrimonio Culturale / Europa Nostra Awards 2016, la più alta onorificenza presente in Europa nel settore del patrimonio culturale e naturale, categoria “Education, Training and Awareness-Raising”.

Esiste anche l’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale–AIPAI, la principale nel settore operante in quest’ambito a livello nazionale, fondata nel 1997 da un gruppo di specialisti del patrimonio industriale e da alcune tra le più importanti istituzioni del settore. Fra i suoi programmi di attività, la promozione di una rete di coordinamento di tutti i siti e parchi minerari presenti sul territorio nazionale. L’associazione oggi conta oltre 300 soci attivi nelle sezioni regionali e interagisce con università, centri di ricerca, fondazioni, musei, organi centrali e periferici dello Stato. All’interno di AIPAI si è anche costituita la sezione italiana di TICCIH-International Committee for the Conservation of Industrial Heritage, la cui attività si è sviluppata in sinergia con quella dell’AIPAI, dispiegandosi soprattutto nelle aree della formazione, della ricerca e della divulgazione, dell’inventariazione e catalogazione, della promozione e valorizzazione dei beni della civiltà industriale.

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